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Marco Pantani, 15 anni fa il Pirata partiva per l’ultimo traguardo

CESENATICO. Con il tempo, pur diventando leggenda, il mito non è riuscito a spazzare via le ombre, né a dissipare i dubbi. Sulla morte di Marco Pantani, arrivata il 14 febbraio di 15 anni fa a privare lo sport italiano di un eroe seppure della categoria “maledetti”, si è fatta luce solo fino a un certo punto e ci sono volute almeno due inchieste per arrivare al verdetto della Cassazione: il Pirata non è stato ucciso. La Corte suprema ha sentenziato una volta per tutte, per sempre, ma la famiglia del corridore non ha mai accettato il verdetto, mentre i suoi tifosi di sempre continuano a discutere. In questi 15 anni senza Pantani si è sempre dibattuto sulla fine ingloriosa di un campione che rilanciò il ciclismo. La verità è sempre appartenuta a qualcuno, però. Vincitore nello stesso anno (1998) del Giro d’Italia e del Tour de France, Pantani venne ritrovato senza vita nel residence ‘Le Rose’ a Rimini, pochi anni dopo le sue ultime pedalate in alta quota. Una fine con tante domande senza risposta che, solo pochi anni prima, nessuno avrebbe potuto prevedere e neppure immaginare. La parabola del Pirata, che – sempre secondo quanto ha stabilito la Cassazione nel 2017 – morì per ingestione involontaria di cocaina, aveva cominciato ad assumere la traiettoria sbagliata il 5 giugno 1999. Dopo la grande impresa ai piedi del santuario di Oropa, Pantani continuò a dare spettacolo. Arrivò solo sull’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio. Poi, sabato 5 giugno 1999, alle 7,25 del mattino, dopo un controllo “a tutela della sua salute”, il suo ematocrito risultò del 52%, contro il 50% del limite massimo concesso. Fu quello l’inizio della fine del Pantani atleta. Una caduta senza appigli. 
La vita di Marco, in pochi minuti, venne sconvolta: il Pirata affogò nel fango e nella disperazione, trovando riparo nelle amicizie sbagliate e in altre sedicenti vie d’uscita. Da eroe sportivo si trasformò in una specie di sinistro paladino della solitudine, facendosi travolgere dalla tragedia. Ha provato a ritrovare un sentiero di salvezza e a imboccarlo, non c’è riuscito, cadendo nel baratro. Su Marco se ne sono dette e scritte tante: è stato definito il carnefice di se stesso, è stato accostato a Coppi e Bartali, è stato stato trasformato in un simbolo di riscatto, dopo i tanti infortuni che ne hanno segnato la carriera. Ha dato e avuto tanto dal ciclismo, ha regalato emozioni forti, palpitazioni, dispensato entusiasmo, ha acceso i sogni, andando oltre il limite. Forse troppo. Discese ardite ne ha regalate tante, sono però mancate le risalite. In 15 anni il suo silenzio definitivo e imperfetto è stato assordante. Pirata e uomo, campione e colosso di argilla a uso e consumo di gente senza scrupoli o senza pudore. La sua fine era già scritta, nessuno forse ha cercato di spiegare i perché.

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Giuseppe Muri

Giornalista pubblicista dagli Anni Ottanta, si occupa di cronaca e di costume. Ha lavorato per un lungo periodo nelle redazioni di testate locali piemontesi. Appassionato di storia, ha svolto alcune inchieste legate a fatti importanti che hanno caratterizzato il Novecento italiano.

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