DUBAI. C’è chi sostiene il progetto, e chi è contro, indicandolo come un esperimento molto distante da un approccio sostenibile all’ambiente. Protagonista del dibattito è Dubai, città degli Emirati Arabi Uniti, nota soprattutto per la sua ricchezza e per gli edifici ultramoderni. Dal 2014 a oggi pannelli solari sparsi su una zona fino a pochi anni fa occupata dal deserto, e serre per la coltivazione degli ortaggi sono stati creati per la vita delle circa 3mila persone che si sono stabilite nella “Sustainable City”, la città sostenibile alle porte di Dubai. Il progetto di un polmone verde in un luogo in cui l’80 per cento del cibo è d’importazione, mentre il consumo di acque e aria condizionata perdurano sei mesi all’anno per fronteggiare le difficili temperature, pare essersi realizzato. Il villaggio costituito da 500 villette, uffici, attività commerciali, un hotel, una scuola, un centro di innovazione, un centro religioso, e un complesso sportivo ha tutte le abitazioni orientate a nord per sfruttare quanto più possibile l’ombra, e ridurre l’uso dei condizionatori.
Mezzi elettrici e biciclette sono ammessi nella Sustainable City per circolare, oltre ai trasporti ad energia elettrica, vietando quindi la’utilizzo di automobili. Inoltre, le acque reflue sono smistate in due condotte differenziate, una per le grigie, e una per le nere, poi raccolte in due laghi e convogliate in alcuni canali con lo scopo d’irrigare e raffreddare l’aria delle serre. Ogni serra, infine, è dotata di ventilatori che buttano l’aria all’esterno, in modo che passi attraverso pannelli resi umidi dalle acque grigie purificate, e abbassando così la temperatura di oltre 10°. L’obiettivo di Dubai, che fa fatica a controllare i consumi, è quello di rendersi autosufficiente sul piano energetico entro il 2020, l’anno che ospiterà l’Esposizione Universale.
