• STORIA

Il 4 settembre 1886 si arrendeva Geronimo, l’ultimo guerriero Apache

Nella sua lingua nativa, il chiricahua, fu chiamato Goyaalé, «colui che sbadiglia». Mai nome fu meno appropriato. Geronimo, come lo ribattezzarono suoi avversari e come lo conosce la Storia, fu uno dei più feroci e coraggiosi guerrieri che il continente americano conosca.
E che ancora a un secolo dalla morte non smette di incutere timore. Demonio per alcuni e mistico per altri, il capo Apache che ha difeso la cultura dei pellerossa combattendo contro americani e messicani, continua a far discutere.

Il 4 Settembre 1886 il capo Apache Geronimo si arrese definitivamente alle truppe del governo statunitense dopo aver combattuto per 30 anni tentando di difendere la propria gente e il diritto degli Apache a vivere liberi sulle loro terre. Il generale Nelson Miles accettò la resa di Geronimo, facendo di lui l’ultimo guerriero a deporre le armi contro le forze americane ed i coloni. Con tale atto si chiudeva sostanzialmente l’epoca delle guerre indiane che dalla metà del XIX secolo aveva interessato a fasi alterne diversi territori nell’ovest degli Stati Uniti. Geronimo era nato nel 1829 e crebbe nella regione al confine tra l’attuale Arizona e lo stato del Messico. Nel 1858 la sua famiglia venne uccisa da messicani e da allora Geronimo condusse una sua guerra personale nei confronti dei nuovi coloni, sia messicani che americani, che si insediavano nei territori degli Apache Chiricahua.

Nella sua autobiografia, Geronimo racconta che, per vendicare i suoi, chiese aiuto al capo Cochise della tribu Chokonen: «Siamo uomini come i messicani e faremo loro ciò che hanno fatto a noi – scrisse – Combatterò in prima fila; vi chiedo solo di seguirmi per vendicare il male che ci hanno fatto i messicani. La mia gente è stata assassinata e io sono pronto a morire, se necessario». Da qui nasce l’immagine a tinte fosche di Geronimo, considerato da molti «un selvaggio sanguinario, crudele e inumano», sottolinea Sherman. Lo studioso osserva poi di non sapere se siano «vere tutte le atrocità imputate a Geronimo, ma in ogni caso non si è voluto fare luce sulle barbarie commesse dai soldati americani e messicani contro gli Apache». A dare una mano è stata anche l’industria cinematografica, con i tanti film sui pellerossa crudeli e disumani. Nel 1874 il governo di Washington trasferì Geronimo e il suo popolo in una riserva nella zona centro-orientale dell’Arizona, dove le condizioni di vita si rivelarono dure per i Chiricahua. Stanco della miseria e dei vincoli a cui doveva sottostare, Geronimo fuggì insieme ad alcuni dei suoi seguaci. Nel decennio successivo combatté a lungo le truppe federali e lanciò numerose incursioni contro gli insediamenti dei bianchi, divenendo de facto il capo dell’ultimo gruppo di pellerossa che si rifiutava di riconoscere l’autorità del governo di Washington e di adottare lo stile di vita che i bianchi avevano scelto per loro. Durante questo periodo Geronimo e i suoi guerrieri furono costretti più volte a rientrare in riserva finché nel Maggio 1885, il capo indiano fuggi un’ultima volta con circa 150 fedelissimi. Cinquemila cavalleggeri inseguiranno gli Apache fino in Messico, senza riuscire a raggiungerli. Nel Marzo del 1886 il generale George Crook lo costrinse ad arrendersi un’altra volta, ma poi Geronimo si sottrasse nuovamente alla cattura e continuò le sue scorribande. Infine fu Miles, che sostituì Crook nelle operazioni contro gli Apache nel sud-ovest, che indusse Geronimo alla resa finale, che avvenne nei pressi di Fort Bowie lungo il confine fra l’Arizona e il Nuovo Messico. Geronimo e la sua banda di Apache furono inviati dapprima in Florida, poi in Alabama, ed infine nella riserva dei Comanche e dei Kiowa vicino a Fort Sill, in Oklahoma. Qui Geronimo si dedicò all’agricoltura, sembra con buoni risultati, e si convertì al cristianesimo. Negli ultimi anni della sua vita l’ex-capo Apache dettò la sua autobiografia, pubblicata nel 1906 con il titolo di Geronimo, Storia della Sua Vita, prima di morire ormai ottantenne a Fort Sill il 17 Febbraio 1909. Nei suoi ultimi anni Geronimo ha goduto di una certa celebrità, arrivando a vendere i suoi autografi alla Fiera mondiale di Saint Louis mentre in Arizona chiedevano la sua esecuzione. Sembra che il capo Apache abbia sfilato davanti al presidente Theodore Roosevelt nella cerimonia dell’investitura del 1905. Quanto alla sua conversione dell’ultima ora al cristianesimo, secondo il professor Sherman si è trattato di «convenienza, per mantenere la pace con la sua gente. In privato – assicura l’esperto – ha continuato a professare la sua religione». E Riding è d’accordo con Sherman: «Era Apache nel profondo del cuore».

Nonostante Geronimo avesse abbracciato la fede cristiana, non gli venne permesso di tornare alla sua terra natale e il capo Apache morì di polmonite in prigionia, a Fort Sill, in Oklahoma, cento anni fa esatti. «La seconda battaglia di Geronimo è iniziata dopo morto», rievoca infine Riding. Nel 1918 le sue spoglie vennero rubate dalla tomba. Sembra ad opera di una società segreta dell’università di Yale, la «Skull and Bones» alla quale apparteneva anche Prescott Bush, nonno di George W. Alcune ossa del leader Apache sarebbero state usate nei rituali della società segreta. Successivamente, in una lettera, l’università di Yale ha rivelato che i resti di Geronimo erano custoditi in un edificio dell’ateneo. Gli Apache hanno chiesto di riaverli indietro, affinché al loro antico capo venga restituita dignità e Geronimo, secondo le loro credenze, possa finalmente riposare in pace.

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Giuseppe Muri

Giornalista pubblicista dagli Anni Ottanta, si occupa di cronaca e di costume. Ha lavorato per un lungo periodo nelle redazioni di testate locali piemontesi. Appassionato di storia, ha svolto alcune inchieste legate a fatti importanti che hanno caratterizzato il Novecento italiano.

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