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L’8 agosto di 63 anni fa la tragedia di Marcinelle

CHARLEROI. Otto agosto 1956: è una calda giornata d’estate. Migliaia di minatori sono al lavoro nelle viscere della terra del Belgio. Anche a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, nella miniera di carbone del Bois du Cazier, si lavora duro. Per un gruppo di 262 minatori, di cui 136 italiani, la mattina dell’8 agosto 1956 è l’ultima della vita terrena. Alle 8.10 un’esplosione nel pozzo numero 1 li intrappola a circa mille metri di profondità, senza speranze di fuga.

Li chiamavano “musi neri” perché quando risalivano in superficie, alla fine del turno, erano completamente ricoperti dalla polvere di carbone, che poi finiva per intasare i polmoni, provocando la micidiale silicosi. Centotrentasei italiani che avevano lasciato la penisola, chi da anni chi da pochi mesi, in virtù di un’intesa siglata dai governi italiano e belga il 23 giugno 1946, in base alla quale l’Italia si impegnava ad inviare in Belgio “braccia forti” da impiegare nelle miniere locali in cambio di un certo quantitativo del prezioso (allora) combustibile, necessario per far ripartire il Paese dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. La tragedia di Marcinelle ebbe un impatto fortissimo sull’opinione pubblica (anche se negli anni a seguire finì nel dimenticatoio).

A Marcinelle, tra il 1946 e il 1957, giunsero in Belgio circa 140 mila uomini, 17 mila donne e 29 mila bambini. Gente povera, che cercava solo un lavoro, un futuro migliore. E che in molti casi pagò i propri sogni al prezzo della vita. Per tanti anni ci si è interrogati sulle cause dell’incidente: alla fine la colpa venne addossata a un operaio (italiano) che, per un’incomprensione o per disattenzione, manovrando i vagoncini sull’ascensore tranciò un cavo elettrico, che a contatto con una condotta dell’olio provocò l’incendio poi rivelatosi fatale. Vi fu un’inchiesta, che si concluse con la sola condanna (sei mesi con la condizionale) dell’ingegnere capo dell’impianto. In realtà, a pesare molto furono soprattutto le pessime condizioni di sicurezza della  miniera e di lavoro degli uomini, costretti a stare al buio, nelle profondità della terra, sei giorni a settimana per più di otto ore al giorno, spesso in cunicoli roventi alti meno di 50 centimetri.

La tragedia di Marcinelle impiegò poco a diventare il simbolo di un’epopea drammatica e gloriosa, un luogo della memoria fra i più simbolici per l’emigrazione del dopoguerra, la seconda più grave sciagura nel suo genere dei tempi moderni. Negli anni che seguirono la miniera belga, opportunamente restaurata, venne così trasformata in un museo.

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Piero Abrate

Giornalista professionista dal 1990, in passato ha lavorato per quasi 20 anni nelle redazioni di Stampa Sera e La Stampa, dirigendo successivamente un mensile nazionale di auto e il quotidiano locale Torino Sera. È stato docente di giornalismo all’Università popolare di Torino.

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