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Pensioni anticipate: uscite a 64 anni o a 62 con penalità

Nel confronto tra governo e sindacati emergono diverse ipotesi sulla flessibilità in uscita dal mondo del lavoro. Ipotesi non nuove. Sono idee sulle quali i tecnici ragionano già da tempo e che ruotano attorno alla questione demografica e sostenibilità della spesa previdenziale, attorno allo scorporo dei costi dell’assistenza da quelli della previdenza, attorno alla pensione di garanzia e alla non autosufficienza.

Tematiche sulle quali già due anni fa in marzo 2018 su Il Messaggero si è espresso il professor Marco Leonardi ex Consigliere economico della Presidenza del Consiglio nei governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

1° ipotesi: l’uscita anticipata a 64 anni

Una delle ipotesi che si affaccia al tavolo del confronto è l’uscita anticipata a 64 anni di età con una penalità del 6% (che corrisponde a un anticipo di tre anni, 2% per ogni anno di anticipo). Sull’ipotesi dell’uscita anticipata dai 64 anni di età si trova d’accordo il Centro Studi di Confindustria che, nella sua Nota Numero 2/20 del 05 febbraio 2020 sulla economia della terza età, suggerisce proprio di “innalzare il tasso di occupazione delle persone tra i 55 e i 64 anni”.

Pensioni anticipate

2° ipotesi: l’uscita anticipata a 62 anni, con 38 anni di contributi

Altra ipotesi allo studio è l’uscita anticipata a 62 anni e 38 di contributi (gli stessi requisiti dell’attuale Quota 100), ma con la penalizzazione del ricalcolo contributivo. Su tale ipotesi si trova d’accordo Marco Leonardi, il quale su Il Foglio del 13 ottobre 2019 così scrive: “Il ricalcolo contributivo è un modo naturale per dare flessibilità di uscita: quota 100 con calcolo contributivo potrebbe diventare la base di un intervento strutturale e permanente su cui “scivolare” a termine di quota 100 dal 2022 in poi”.

Nello stesso articolo Marco Leonardi evidenzia “il fallimento totale della teoria della staffetta generazionale giovani/anziani come giustificazione per quota 100”.

Il pensiero di Marco Leonardi su “Quota 100”

Il pensiero di Leonardi su Quota 100 è noto da tempo. Già nel suo libro Le riforme dimezzate. Perché lavoro e pensioni non ammettono ritorni al passato pubblicato in ottobre 2018 egli afferma: “qualcuno usa l’argomento, del tutto privo di fondamento empirico, che mandando in pensione prima gli anziani si occupino più giovani”.

Secondo Leonardi il punto non è l’occupazione dei più giovani; il punto è che “è proprio la fascia di popolazione in età lavoro (15-64) che è prevista in diminuzione del 19 per cento (nel 2045 rispetto a oggi), al netto del contribuito degli immigrati che però è molto incerto sia nelle dimensioni sia nella regolarità contributiva”. In altre parole, il professore sostiene che l’argomentazione di mandare in pensione gli anziani per far posto ai giovani viene meno, perché sono proprio i giovani a venire a mancare.

La risposta al pensiero del professor Leonardi

Innanzitutto, rispondiamo a Leonardi in merito al perché Quota 100 non ha favorito il ricambio generazionale. Ciò non è avvenuto perché: 1) le aziende hanno esuberi da smaltire, come testimoniano, per esempio, i 6000 esuberi in Italia di Unicredit e i 2000 di Ubi Banca (tecnologie digitali e disintermediazione fanno sì che i clienti diventino “dipendenti virtuali” della banca e quindi prendano il posto dei dipendenti reali); 2) chi possiede i requisiti 62 anni di età e 38 di contribuzione può aver scelto di rimanere al lavoro per costruirsi un montante contributivo più elevato e quindi percepire una pensione più elevata.

La realtà italiana è questa: la produzione è stagnante, gli investimenti sono fermi, i consumi non decollano, i disoccupati sono 2,5 milioni (soprattutto giovani), il lavoro manca (altrimenti non ci sarebbero esuberi).

Quando l’economia è stagnante e il Pil cresce solo dello “zero virgola”, essendo gli investimenti fermi, il solo modo per far crescere il Pil è agire sui consumi, non tanto su quelli esistenti quanto invece sui nuovi. I nuovi consumi possono essere stimolati solo da nuovi occupati, i quali possono trovare lavoro solo se altri lavoratori vanno in pensione con Quota 100 senza vincolo di età. Avendo un lavoro retribuito adeguatamente, i giovani potranno mettere su famiglia e avere bambini, che nel 2045 avranno un’età compresa nella fascia (15-64), contrastando quindi la diminuzione del 19 percento della popolazione abile al lavoro di cui parla Leonardi.

Ridimensionare la Quota 100 significherebbe aggravare ulteriormente il problema della disoccupazione generazionale, già aggravata dall’automazione e dalla disintermediazione. Per uscire da questa impasse economica è necessario utilizzare un modo di pensare opposto a quello che l’ha generata.

Claudio Maria Perfetto

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