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Klopp, Ruiz jr. e Chavez, tre storie all’insegna del “Non mollare mai”

È stato un weekend sportivo contraddistinto da storie e vittorie dal sapore speciale. L’attenzione mediatica di gran parte degli appassionati sportivi stata rivolta nei confronti della finale di Champions League, sopratutto nel nostro Paese nel quale il calcio rappresenta lo sport più seguito in assoluto. Forse vi sarete resi conto che nonostante le aspettative della vigilia la partita più attesa dell’anno non è stata la partita più spettacolare in assoluto della competizione e più in generale del calcio europeo. C’è qualcosa di più profondo che vorremmo analizzare in merito a questa partita, ma dobbiamo andare per ordine.

La storia, o meglio le storie, di cui vorremmo parlare riguardano tre discipline così differenti come il calcio, il pugilato e il ciclismo, ma accomunati in questo caso da un denominatore comune, ossia la voglia di non mollare mai.

ESTEBAN CHAVEZ, IL COLIBRÌ PIÙ TENACE CHE ESISTA

Partiamo in ordine cronologico e più esattamente dalla storia di Esteban Chavez, ciclista colombiano ventinovenne, che venerdì ha trionfato nella 19ª tappa del Giro d’Italia con partenza da Treviso e arrivo a San Martino di Castrozza. Soprannominato “il colibrì” è volato sulle vette delle Dolomiti in solitaria e si è aggiudicato, a distanza di un anno, una vittoria meritata quanto sofferta. E pensare che Esteban negli ultimi due anni era stato martoriato da una serie di sfortunati eventi che ne avevano compromesso il percorso sportivo: nel 2017 a causa di un infortunio al ginocchio è costretto a saltare gran parte delle corse primaverili per concentrarsi sul suo debutto assoluto al Tour de France. Nella competizione francese non riesce a recuperare in pieno la forma, termina la 104ª edizione della Grande Boucle classificandosi 62/o. La stagione finisce di male in peggio, procurandosi il 30 settembre una frattura alla scapola durante una gara del Giro dell’Emilia.

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Esteban Chavez (Twitter @giroditalia)

Nel 2018 la stagione sembra cominciare in maniera decisamente positiva con una vittoria nella tappa regina all’Herald Sun Tour. Nella stesso anni si aggiudica la 6ª tappa del Giro d’Italia con arrivo sull’Etna. Sembra tra i favoriti alla vittoria finale della competizione, piazza un ottimo terzo posto nella tappa con arrivo al Gran Sasso e raggiunge provvisoriamente la seconda posizione provvisoria in classifica generale. Ma il destino sembra ancora una volta voler tarpare le ali del colibrì: Chavez dalla decima tappa ha un crollo fisico enorme che lo mette definitivamente fuori dai giochi nella competizione. Successivamente si scoprirà che è stato affetto da una forma di mononucleosi molto aggressiva, a cui si sono aggiunti altri virus, sinusite e reazioni allergiche; problemi che ne hanno inficiato il rendimento sportivo e sopratutto lo hanno condizionato psicologicamente. Esteban, in riferimento al momento così sfortunato, del 2018 aveva così dichiarato: “E’ stato un periodo difficile. Dal 2012 non sono mai stato fermo così a lungo. In questo sport siamo abituati a risposte e risultati che arrivano velocemente, questo processo è stato lento e il tempo può farti impazzire.

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Esteban Chavez (Twitter @giroditalia)

E dopo tanta sofferenze qualche giorno fa è arrivata la rivincita. La vittoria in solitaria sulle Dolomiti è stata l’occasione perfetta per dimostrare quanto tenacia ed lavoro possano ripagare degli sforzi profusi. Al termine della gara di venerdì ha dichiarato: “Non ho parole per manifestare la gioia che ho dentro. Non bisogna mai mollare. È una vittoria che rappresenta un insegnamento nello sport come nella vita: bisogna sempre spingere al massimo.”

ANTHONY RUIZ JR, L’OUSIDER CHE È RIUSCITO A FAR RICREDERE IL MONDO INTERO

La seconda storia che vogliamo raccontare è quella di Antony Ruiz jr. , pugile statunitense di origine messicana che contro ogni favore del pronostico ha conquistato il titolo mondiale dei massimi nelle categorie Wba, Ibo, Ibf e Wbo.

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Antony Ruiz jr. e il suo team (Twitter @Dazn)

Il californiano, nato e cresciuto nei pressi dell’Imperial Valley, zona arida situata a sud est della California ed in parte ricoperta dal deserto del Colorado, viene chiamato per disputare l’incontro con in campione del mondo Anthony Joshua solamente trenta giorni prima dell’incontro, a causa del stop obbligato dello sfidante designato in partenza Jarrell Miller, fermato dalla federazione a causa di un controllo antidoping risultato positivo. Dopo l’assegnazione del nuovo sfidante molti appassionati della “nobile arte” sui social si sono divertiti a sbeffeggiare Ruiz, ironizzando sulla sua forma fisica e sul fatto che di fronte a un campione così forte e dal fisico statuario come il britannico non avrebbe avuto alcuna chance di vittoria.

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Antony Ruiz jr. mette al tappeto Anthony Joshua (Twitter)

Però si sono dimenticati un dettaglio fondamentale: la boxe è uno sport nel quale la forma fisica di sicuro conta, questo è innegabile. Ma contano molto di più caratteristiche come la forza di volontà, lo spirito di sacrificio, la forza nel portare i colpi e saperli incassare, credere in se stessi e giocare d’astuzia. Lo sfidante con soli trenta giorni di tempo per preparare il match più importante della sua carriera ha saputo credere in se stesso, ha lottato con la mente e con il cuore, oltre che con il proprio corpo. Joshua probabilmente non ha intuito quanto l’avversario potesse essere pericoloso. Sia per l’ex campione del mondo dei massimi, che per i fans che hanno giudicato prematuramente il messicano sarebbe il caso di rispolverare un detto che si presta pienamente a descrivere questa situazione: “Mai giudicare un libro dalla copertina“.

Inoltre non tutti erano a conoscenza del fatto che Ruiz il 10 dicembre del 2016 era andato vicinissimo al conseguimento del titolo Wbo dei pesi massimi contro il neozelandese Joseph Parker. In terra neozelandese, ad Auckland, Parker riuscì, al termine delle 12 riprese grazie al verdetto dei giudici, a conquistare l’allora titolo vacante. Per lo statunitense quella fu la prima ed unica sconfitta in carriera da professionista. Lo stesso Parker il 31 marzo 2018 sfidò Joshua, il primo mettendo in palio i tre titoli Wba, Ibo e Ibf, mentre il secondo quello Wbo. Anche in questo match non terminò prima delle 12 riprese previste e il vincitore fu il boxer britannico.

Forse era destino che a Ruiz non dovesse andare in dote una sola cintura ma bensì quattro.

Ebbene sì un ragazzone ventinovenne di 122 kg e alto 188 cm, non al massimo della forma fisica ma con la forza di un rinoceronte, è riuscito ad avere la meglio su un gigante alto quasi due metri (198 cm) di 112 kg dal fisico statuario. Il match sembrava sino alla 3ª ripresa in netto favore del pugile britannico, che ad inizio di ripresa è riuscito a mandare al tappeto lo statunitense. Lo shock e il gancio destro hanno risvegliato lo sfidante al titolo che ha incassato senza batter ciglio ed ha mandato per ben due volte l’avversario al tappeto nella stessa ripresa. Quando sembrava volgere tutto in favore del campione, l’outsider si è destato ed ha trovato dentro se stesso la forza di reagire. L’incontro termina nella 7ª ripresa quando Ruiz manda al tappeto per l’ennesima volta Joshua e l’arbitro decide che è arrivato il momento di porre fine all’incontro e decretare per la prima volta in assoluto un messicano, anche se solo di origine, campione del mondo dei massimi.

JURGEN KLOPP, LA STORIA DEL “NORMAL ONE” CONSIDERATO FINO A IERI UN PERDENTE DI LUSSO

Non c’è allenatore al mondo quanto Jurgen Klopp che abbia sofferto il fatto di essere considerato un allenatore non in grado di vincere le finali che contano. Abbiamo sentito spesso dire che era stato capace di conquistare una sola finale in sette occasioni, ma il dato è completamente errato. Il tecnico tedesco, in carriera, ha conquistato 2 Supercoppe tedesche ed 1 Coppa di Germania, oltre che 2 campionati tedeschi che non influiscono sul dato delle finali, per un totale di 3 finali vinte su 11 totali disputate. La finale di Champions League di ieri è stata la terza della sua carriera, una persa nella stagione 2012/2013 contro il Bayern Monaco e l’altra dello scorso anno contro il Real Madrid, che si sono aggiudicati gli spagnoli. C’è da ricordare inoltre che nella prima stagione ai Reds del 2015/2016 è riuscito a raggiungere la finale di Europa League, anch’essa persa per 1-3 contro il Siviglia.

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Jurgen Klopp (Twitter)

Ma Jurgen non si è mai arreso davanti alle difficoltà, ha saputo creare un grande rapporto con i propri giocatori, con i tifosi e con la società. Ha sempre pensato al processo di crescita del gruppo e davanti alla stampa non ha mai lesinato sorrisi e buoni propositi. Non si è lasciato condizionare dalle sconfitte, per quanto siano state dolorose, ed ha saputo guidare il Liverpool sempre più in alto. Ha lavorato sulla testa dei giocatori, oltre che sulla tecnica e sulla tattica, ne ha esaltato il vissuto e si è appassionato vivamente alla storia personale di ognuno di loro.

Jurgen Klopp abbraccia il capitano del Liverpool Jordan Henderson, entrambi visibilmente commossi (Twitter)

Klopp è riuscito a vincere una finale utilizzando al meglio ogni singolo elemento del gruppo, ed è riuscito a trarre una grande forza dall’entusiasmo di un pubblico unico al mondo. Solo ora riusciamo a capire nel più profondo significato la frase che pronunciò in conferenza stampa prima della semifinale contro il Barcellona: “Il Camp Nou, a mio parere, non è un tempio del calcio“. Una frase sul momento contestata da molti, ma che ha fatto capire quanto il potere delle parole abbia contribuito a ribaltare un risultato che sembrava condannare definitivamente il Liverpool (il 3-0 subito in casa del Barcellona) e abbia contribuito al raggiungimento della finale e della conseguente vittoria della “Coppa dalle grandi orecchie“.

Jurgen Klopp (Twitter)

Non sarà stata la partita più spettacolare della stagione e nello stesso tempo la gara più brillante dei Reds, ma il risultato di 2-0 sancisce una vittoria meritata, costruita attraverso attraverso il lavoro, la determinazione e la costanza di risultati. Il crocevia fondamentale della stagione è stata l’ultima partita della fase a gironi della Champions, quando il Liverpool in casa ha dovuto affrontare il Napoli. Ai partenopei, per passare ai quarti sarebbe bastato un pareggio, mentre i padroni di casa erano costretti a vincere. L’1-0 targato Salah ha condannato il Napoli, relegandolo il terza posizione nel girone con conseguente qualificazione in Europa League, mentre il Liverpool ha cominciato la cavalcata verso la vittoria finale. E pensare che le due squadre avevano raccolto lo stesso numero di punti, 9, durante la fase a gironi, ma la miglior differenza reti degli inglesi ha influito sulla qualificazione.

Per cui la considerazione finale che mi sento di fare è che nella vita, come nello sport, non bisogna mai mollare e mai darsi per sconfitti prima del tempo. Bisogna sempre nutrire grande fiducia nei propri mezzi. Le sconfitte, anche quelle più dure, rappresentano una parte importante del processo di crescita di ogni persona, diventando parte integrante di quella base solida sul quale costruire le proprie vittorie personali.

Carlo Saccomando

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Carlo Saccomando

Classe 1981, giornalista pubblicista. Poco dopo gli studi ha intrapreso la carriera teatrale partecipando a spettacoli diretti da registi di caratura internazionale come Gian Carlo Menotti, fondatore del "Festival dei Due Mondi" di Spoleto, Lucio Dalla, Renzo Sicco e Michał Znaniecki. Da sempre appassionato di sport lo racconta con passione e un pizzico di ironia. Attualmente dirige il quotidiano "Il Valore Italiano".

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